Profughi in un altro mondo


L'Italia era in piena guerra civile. Dopo tre anni di combattimenti le milizie antisistema, con l'aiuto di alcune forze extraparlamentari, riuscirono a impadronirsi di Roma. Nel frattempo il territorio fu devastato e chi poteva fuggiva per paura dei bombardamenti e dei gruppi armati che ti fucilavano sul posto se scoprivano che non eri dalla loro parte. Le forze governative della quarta repubblica rispondevano alla brutalità con brutalità. Entrambi gli schieramenti dichiaravano di lottare per amore.

La gente disperata scappava a piedi per sfuggire ai controlli nelle stazioni e negli aeroporti, occupati da eserciti avversari a seconda della zona. Da un nickname o un cognome era possibile risalire a tutto il materiale postato da una persona in rete. Erano in grado di rintracciare tutto, anche i post cancellati. Bastava un meme sbagliato per meritare una pallottola in testa davanti agli occhi atterriti di parenti e amici. I fuggitivi attraversavano i boschi per arrivare verso la costa, dato che i confini terrestri erano sorvegliatissimi, molti morivano per strada di stenti oppure venivano uccisi dai malavitosi che dettavano legge nelle campagne. Le donne e i bambini venivano stuprati. C'erano donne che preferivano uccidersi all'istante quando incontravano gruppi mafiosi che pretendevano il pedaggio, c'erano uomini che uccidevano i figli per salvarli dai trafficanti. La popolazione era martoriata.

Matteo si svegliò a Durazzo, in una tenda della croce rossa albanese. Doveva essere morto ma, trovato in fin di vita, i medici schipetari lo avevano salvato. Si era tagliato le vene e gli avevano sparato, voleva morire ma non glielo avevano permesso. Quando aprì gli occhi due infermieri avevano esultato e si erano abbracciati, gli parlavano in albanese ma ogni tanto si riusciva a capire una sola parola in italiano: «benvenuto».

Non riuscendo a sopportare la visione dei ragazzi e la loro felicità nel vederlo vivo, Matteo iniziò a urlare e piangere: «maledetti! lasciatemi! volevo morire!», «che ci faccio qui! voglio morire!», «lasciatemi stareeeeeeeeeeee!». Gli infermieri, impietriti, non sapevano cosa fare e a malapena riuscirono a trattenergli le braccia e le mani che, impazzite, avevano iniziato a lanciare in aria tutto. Sentì una puntura sul braccio e all'istante la vista gli si annebbiò, fu stordito da un sonno pesante e le tenebre lo avvolsero e lo portarono via, lontano da quella insopportabile vita.

Di nuovo sveglio, chissà quanto tempo dopo, non riusciva a capire dove si trovava. Giaceva su un letto e quella attorno a lui sembrava una stanza d'ospedale o clinica. «Buongiorno», disse una giovane voce femminile. Matteo capì che la donna si trovava di fronte a lui già da prima. Proprio così, era lì da prima ma non l'aveva vista. «Salve. Come sta? Mi chiamo Besmira e sono una collaboratrice del Centro». Dal suo sguardo era evidente che Matteo non capiva, così Besmira continuò, «sono una psicologa, lavoro per questo centro di accoglienza. Dobbiamo capire chi è lei, identificarla. Quando è arrivato qui era senza documenti. Sappiamo che è italiano perché parlava nel sonno. Sono stata molto tempo in Italia, sa? A Padova e Bologna, poi sono tornata. Lei come si chiama?» Matteo era interdetto mentre sentiva la sua bocca pronunciare il suo nome, senza dare retta al cervello che non voleva sapere niente del mondo esterno. Perché l'aveva detto? «Molto piacere Matteo, mi può dire anche il suo cognome? Quanti anni ha?» Questa volta il cervello riuscì a tenere a bada la bocca e non rispose. «Non si ricorda più niente? È venuto da solo o con qualche parente? Non so, moglie, figli?» Sì, pensò Matteo, ero con mia moglie e mia figlia, ma loro non ci sono più. Anch'io volevo morire, dannazione. Che ci faccio qui? Che ci faccio qui? Iniziò a urlare di nuovo fino a perdere la voce, disperato si guardava intorno ma non poteva muoversi, solo a quel punto si rese conto di essere stato legato. Merda, pensava. Merdaaaaaaa!!!! Besmira fissò qualcuno dietro di lui, c'era un'altra persona tra il letto e il muro, ora lo vide chiaramente perché iniziò a muoversi. Puntura, buio, solitudine, silenzio.

Era di nuovo a casa con sua moglie, guardavano la TV seduti sul divano mentre la piccola giocava sul tappeto del soggiorno, aveva montato il suo laboratorio di disegno e preparava i pennarelli ordinandoli per colore prima di iniziare gli schizzi del suo capolavoro della giornata. Una volta finito il disegno sarebbe andata da papà e mamma per farglielo vedere, mamma l'avrebbe presa e portata in bagno prima di andare a letto. «Ciao papino. Dopo vieni a salutarmi?» Certo, pensava Matteo, dopo vengo nella tua cameretta, ti leggo una storia e ti do la buonanotte, come sempre. Dopo si girò e vide la costa, c'erano gli scafisti che spiegavano a tutti cosa sarebbe successo. Prima di salire in barca i soldi andavano dati in contanti, quattromila euro a testa, se mancava un euro pallottola quindi non fate i furbi, sulla barca bisognava stare zitti, altrimenti botte. Non c'era acqua né cibo, tanto per arrivare in Albania ci vuole poco. Erano da qualche parte tra Bari e Brindisi e faceva freddo, molto freddo. Lui e sua moglie erano pronti a tutto. Avevano già visto ogni atrocità ma fu sua moglie a dirlo, «non mi faccio stuprare». Lui doveva prendersi cura della piccola ma se le cose si mettevano male sapeva cosa fare. Erano una famiglia credente e praticante, sicuri che Dio li avrebbe perdonati.

Vide un lago di sangue per terra, lei era già esanime ma i suoi occhi lo fissavano. «Ma che stronza! Guarda qua s'è uccisa sta troia! Non ci dovevano essere morti, ora ci fanno il culo. Che stronza questa!» Lo scafista era imbestialito, poi ci fu un tafferuglio infinito, o infinitesimale, Matteo aveva la figlia in braccio avvolta come un pesciolino, aveva anche un coltello di cucina e cominciò a tagliarsi le vene dei polsi, poi ci furono gli spari, sentì bruciare l'addome e la gamba. Poi questo tunnel silenzioso, c'era solo lui che correva e rideva, «non ci avete presi, maledetti, siamo scappati, bastardi, siate maledetti per sempre».

Questa volta al risveglio faceva freddo, non era più in una stanza d'ospedale. Le luci erano spente e dall'unica finestra filtrava, abbondante, la luce gialla di un lampione. In un angolo della stanza c'era la scintilla intermittente di una sigaretta accesa, una voce rauca irruppe nell'aria. «Mi hanno detto che ti chiami Matteo, piacere, io sono Giuseppe». «Piacere», nonostante la gravità della situazione, anzi, forse proprio per quello, Matteo si sentì libero di parlare. «Mi fa male tutto. Dove siamo?». L'altro era seduto per terra e spostò il peso da una chiappa all'altra con fare pesante prima di rispondere, «non lo so dove siamo, so solo che ci deportano perché siamo senza documenti, ci rimandano indietro in barca domattina, dicono che siamo in trenta». Matteo non ci poteva credere, non avevano detto che una volta arrivati in Albania avrebbero avuto diritto all'asilo politico? Giuseppe si alzò e continuò, «dicono che ci portano a Bari e ci consegnano alla capitaneria di porto». Entrambi in piedi, si fissavano. Matteo ascoltava. «Lo sai che come rimettiamo piede in Italia ci ammazzano vero? Ci spareranno in pubblico, così quelli che vogliono scappare ci pensano bene prima di provarci».

Matteo guardò fuori dalla finestra, «tanto non ci ritorno uguale, ormai sono solo e non me ne frega niente». Giuseppe gli si avvicinò all'orecchio, «immaginavo, dicevano che eri pazzo ma io ti capisco, non ti voglio chiedere niente della tua vita ma so che io e te siamo simili, in questo, voglio dire. Neanch'io ci voglio ritornare. Ti faccio una proposta...».

La mattina dopo gli operatori del centro di accoglienza trovarono i corpi, uno a terra e l'altro ancora appeso, tutti e due morti per impiccagione. Avevano fatto a turno. La mattina dopo ne parlò qualche giornale con un trafiletto, i resoconti giornalistici lasciavano intendere che i due stranieri soffrivano di problemi psichiatrici.